venerdì 20 luglio 2012

I Keane tornano a fare centro: niente di strano

Dopo il poco convicente Night Train (ma era un EP), i Keane sono rientrati in studio per regalarci Strangeland.
Nel quarto cd la band inglese dimostra di avere le idee chiare almeno quanto ai tempi di Under the Iron Sea, che per chi scrive rimane il loro capolavoro.
Strangeland è una sferzata di aria fresca, un concentrato di melodia dove è difficile trovare qualcosa da scartare.
Sono 12 canzoni che mantengono una durata media di 3:30 e puntano a catturare le emozioni dell'ascoltatore con arrangiamenti avvolgenti, piano e tastiere a fiumi, rigorosamente senza l'utilizzo di chitarre.
Ancora di più che in altri lavori dei Keane le armonie e le melodie di Strangeland sono tanto semplici quanto efficaci. A cominciare da You Are Young, traccia di apertura che con poche note ed accordi crea un'atmosfera esaltante quanto ruffiana. Seguono Silenced by the Night e Disconnected singoli dai ritornelli penetranti. Il primo lento è Watch How You Go, brano delicato seguito dalla bella ballata Sovereign Light Café. Il ritmo riparte con On the Road le cui sonorità ci riportano ai primi Keane. The Starting Line è un'altra ballata che ci offre un ritornello molto potente. È però con la calma apparente di Black Rain che scopriamo i nuovi Keane: un brano elettronico e minimale dove la voce di Tom Chaplin offre una delle migliori interpretazioni di sempre. Neon River e Day Will Come ci riportano di nuovo indietro nel tempo a testimonianza di come Strangeland sia una viaggio nel panorama compositivo dei Keane, che si proietta sempre in avanti.
In Your Own Time non fa che confermare questa tesi e torna a portare in alto le emozioni dell'ascoltatore per poi adagiarle sul pianoforte e voce di Sea Fog, la cui delicatezza le culla fino alla fine di Strangeland.
La musica continua con le versioni Deluxe e Japan che ci offrono cinque bonus track. Ricordiamo la title track (mancata) Strangeland, che insolitamente non è stata inserita nell'edizione standard, e Run With Me brano molto orecchiabile ma che si merita l'esclusione per aver strizzato l'occhio ai (fastidiosi) cori da stadio di coldplayana memoria.

8/10


lunedì 16 luglio 2012

Ritorno al basso

Sting - Umbria Jazz 2012
Come lui stesso ha ricordato in un ottimo italiano, l’ultima volta di Sting a Perugia risale al 1987 quando insieme all’indimenticato Gil Evans e la sua orchestra diedero vita ad uno degli eventi musicali più celebrati degli ultimi anni. 
Lo sa bene Sting che con quel concerto ospitato da Umbria Jazz allo Stadio Curi diede in pratica il battesimo della sua carriera solista, appena iniziata.
Non a caso tre brani di quel periodo, presenti nell’album Nothing Like The Sun, hanno contributo alla magia del concerto che Sting e la sua nuova gigante formazione hanno tenuto per la chiusura di Umbria Jazz 2012, tappa di un tour che, sempre non a caso, si intitola Back to Bass.
61 anni, al secolo Gordon Sumner, Sting incanta il pubblico dell’Arena Santa Giuliana - si parla di 7 - 8 mila persone - con brani come If I Ever Lose My Faith in You, Englishman in New York, The Hounds of Winter, classici della sua discografia solista e pezzi intramontabili dell’era Police come Every Little Thing She Does Is Magic, King of Pain e Every Breathe You Take.
Fra una canzone e l’altra la band si lancia in sensazionali improvvisazioni dove primeggiano il chitarrista Dominic Miller, il tastierista David Sancious, uno scatenato Peter Tickell al violino elettrico la vocalist Jo Lawrie e il batterista Vinnie Colaiuta, asse portante del gruppo che lo stesso Sting definisce il migliore al mondo.
Lui - Sting - voce e basso elettrico alimenta la sua personale leggenda senza una sbavatura.
Il pubblico, armato di smartphone e tablet, contraccambia con grande calore e forti applausi.
Sul parterre dell’Arena la compostezza si regge a stento e con i primi accordi di Roxanne si infrange definitivamente. È quasi la fine del concerto ma sotto al palco il pubblico si scatena. 
Si ballano gli ultimi emozionanti brani. Su tutti Little Wing di Jimi Hendrix - unica cover pubblicata nei suoi dischi dal musicista inglese.
Per finire Sting imbraccia la chitarra e saluta il pubblico di Perugia con i delicati arpeggi di Fragile.

sabato 5 novembre 2011

Il fratellone ha preso il volo

High Flying Birds (Sour Mash Records, 2011), primo lavoro solista dell'ormai ex-Oasis Noel Gallagher, non sorprende. Ma non lascia nemmeno indifferenti.
Non sorprende perché il sound appare - è il caso di dirlo - familiare. Venti anni di sodalizio musicale non si dimenticano facilmente, soprattutto se sono stati spesi fianco a fianco con il proprio fratello. Sebbene quest'ultimo - il Liam che lo ha battuto (solo) sul tempo assieme ai suoi nuovi Beady Eye - abbia sempre goduto della posizione di frontman, va ricordato che la stragrande maggioranza dei successi degli Oasis è interamente opera di Noel. E come non ricordare la prima volta che si è cimentato con ottimi risultati nella voce solista in un loro disco? Ora, preso definitivamente in mano il microfono, Noel dimostra ancora di avere molto da dire.
Già dal primo ascolto il suo appare come un lavoro godibile, maturo e soprattutto genuino che fissa Gallagher nel firmamento dei migliori cantautori britannici della sua generazione. Il disco parte molto bene con l'epica Everybody's on the Run, un inno orchestrale in cui la voce di Noel taglia una melodia che si fissa nella mente e nel finale lascia spazio agli archi, protagonisti di un brivido. Dream on è una marcia spensierata che ricorda gli episodi folk dei migliori Oasis. Con If I had a Gun scopriamo una bella ballata dalla struttura classica e ben confezionata. The Death of You and Me è il primo singolo del disco, canzone molto ruffiana che ricorda nelle atmosfere e nella melodia la hit Oasis del 2005 The Importance of Being Idle che era sempre opera di Noel. La successiva (I Wanna Live in a Dream in My) Record Machine sta lì come riempitivo, banale ma non troppo. Rappresenta invece una sorpresa AKA... What a Life! dove le chitarre vanno in secondo piano lasciando protagonisti il ritmo quasi-dance e il pedale di pianoforte che ne fanno un brano dinamico e fresco, molto radiofonico: non a caso è il secondo singolo scelto. Soldier Boys and Jesus Freaks ci riporta nel territorio delle marce con echi molto beatlesiani. AKA... Broken Arrow è un'altra bella ballata che non può non ricordarci i primi successi degli Oasis, Wonderwall su tutti. Un gran pezzo è (Stranded On) The Wrong Beach, una sorta di omaggio al rock anni '70 con cui Gallagher è cresciuto. Intorno a Stop the Clocks si è sviluppato un caso fin dai tempi dell'album Don't Believe the Truth degli Oasis, nel 2004. Rimandata la pubblicazione varie volte e poi trapelata dal web in versione demo, eccola finalmente chiudere il primo lavoro di Noel Gallagher. Un compito che forse sarebbe spettato più meritatamente alla bonus track in download digitale A Simple Game of Genius per finire con intensità. Non senza nostalgia.

Voto: 7/10

giovedì 8 settembre 2011

Un viaggio nella riviera inglese

Ancora una volta la Gran Bretagna ci regala una novità discografica, fra le più interessanti del 2011.
È il nuovo album dei Metronomy The English Riviera (Because Music, 2011), un lavoro in cui la formazione a quattro guidata da Joseph Mount crea una miscela convincente di rock, elettronica e pop che sta spopolando oltremanica.
Il viaggio di 45 minuti nell'universo dei Metronomy comincia proprio sulla riviera inglese. La title track propone i suoni del mare mentre un quartetto d'archi mente su tutto ciò che verrà dopo.
Siamo ancora sulla spiaggia quando basso elettrico e poco dopo chitarra, synth e batteria ci portano nell'atmosfera di We Broke Free. Ora il suono è decisamente inglese. Chitarra in palm muting e voce filtrata dal chorus ricordano l'Alan Parson Project mentre la batteria riporta alla mente i Radiohead vecchia maniera. La tensione che si crea nelle prime strofe viene rotta bruscamente quando la chitarra distorta trascina il brano in un crescendo dove ben presto ritmo e dissonanze prevalgono.
Tutto cambia quando inizia Everything Goes My Way che ci porta dentro i confini del pop. La voce femminile, irresistibile nei cori del ritornello, canta melodie concise e orecchiabili sopra un'armonia per nulla scontata, e in qualche modo beatlesiana. L'arrangiamento quasi unplugged e il testo ironico la rendono un vero gioiello.
Con The Look comincia a emergere il lato elettronico dei Metronomy. Il brano si sviluppa su un riff di organo tanto semplice quanto trascinante che valorizza la struttura non convenzionale. La ritmica è rinforzata dal suono del guiro che nel video ufficiale è rappresentato da due gabbiani animati in slow motion.
She Wants ci porta su atmosfere più oniriche e dark. Una canzone dalla struttura tradizionale strofa-ponte-ritornello che l'ha resa perfetta per essere il primo singolo estratto dall'album assieme ad un video ben congegnato.
Dopo un minuto di arpeggio di chitarra elettrica parte "Trouble", brano terzinato che dà la sensazione di essere incompleto. Nella strofa e nel ritornello della seconda parte la melodia vocale è sostituita prima con il vocoder e poi con il parlato. Una struttura comunque funzionale al testo, che tratta l'incomunicabilità.
Con The Bay ritorna il tema della riviera inglese. È, anzi, la sua celebrazione. Un brano da ballare all'infinito che ci riporta indietro di qualche decennio. Protagonisti sono basso e batteria che creano una struttura solida in cui cori e synth si sbizzarriscono. Gran finale con assolo di chitarra elettrica (al limite della dodecafonia). Altro singolo, altro video. Loving Arm è elettronica + psichedelia. Il brano è caratterizzato da una atmosfera ovattata grazie al massiccio utilizzo dei sintetizzatori. Un bell'assolo d'organo ricorda i primi Pink Floyd, mentre la voce di Mount canta un testo imperscrutabile.
Altro brano trascinante è Corinne, un power rock con un bel giro di accordi e ancora tanto synth. Dopo due strofe il brano è dominato dal ritornello e da un assolo di chitarra al sapore di rockabilly.
Some Written fa il paio con la succitata Trouble, ma funziona meglio. Merito forse del jazz che la permea soprattutto nel finale: una melodia martellante dove ad un tratto entra persino il kazoo.
Siamo alla fine del viaggio e i Metronomy ci regalano Love Underlined. Un brano di elettropop sperimentale a metà strada fra "Tomorrow Never Knows" dei Beatles e la produzione più orecchiabile dei Kraftwerk. Tripudio di campionatori e finale con clavicembalo (sintetico).
La tentazione di far ripartire il disco è forte ogni volta che finisce. Un consiglio? Attivare la funzione repeat.

Voto: 8/10